La filosofia del «che male c’è?»

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1 • «Aprirsi a nuove esperienze!»

Nel contesto culturale in cui viviamo, una delle cose che si sente dire più spesso è che le persone sono alla continua ricerca di «nuove esperienze»

Ah, «le esperienze»

…non se ne fanno mai abbastanza!

Andare all’estero, visitare paesi con culture completamente differenti dalla nostra, assaggiare piatti esotici…

…cavalcare un dromedario, imparare il sirtaki, scalare una montagna, lanciarsi da un paracadute…

…usare una tavola ouija, rubare dalla cassetta dell’elemosina, mentire ad un amico, provare l’ebbrezza di andare con una prostituta, tradire la propria ragazza…

esperienze sessuali

2 • Esperienze, esperienze, esperienze… ma di che tipo?

Il mio amore viscerale per Franco Nembrini (insegnante, saggista e pedagogista italiano, classe ’55) non è un segreto.

In un libro di una decina di anni fa sono state raccolte le sbobinature di alcuni interventi che Franco ha tenuto in parrocchie, assemblee, convegni, tra il 2004 e il 2007…

…in uno di questi incontri, Nembrini ha detto le seguenti parole:

Sulla questione dell’esperienza occorre però fare chiarezza, perché ci imbattiamo spesso in equivoci clamorosi.
Il più eclatante è questo: chiamiamo «esperienze» in modo neutrale tutte le cose che un ragazzo può fare.
Invece non è vero che uno perché prova tante cose fa più esperienza.
È la cultura in cui siamo immersi che ci fa dire questa stupidaggine clamorosa
.
L’esempio che mi viene subito in mente è quello delle morose.
Da tante discussioni con i ragazzi sembra, a sentir loro, che uno quante più morose ha avuto, più ne ha provate, più abbia esperienza.

(FRANCO NEMBRINI, Di padre in figlio. Conversazioni sul rischio di educare, Ares, Milano, 2011, p. 66)

fare esperienza

Prosegue Nembrini:

È una sciocchezza incredibile, perché la storia personale di molti dimostra esattamente il contrario: dimostra che essersi bruciato in una serie di rapporti superficiali, mai portati fino alla loro conseguenza ultima, è esattamente quello che impedisce, spesso poi per tutta la vita, di avere un rapporto che sia quello che dev’essere.
Così arrivano a venti o venticinque anni, avendo le cosiddette «esperienze» alle spalle, che costituiscono una serie infinita di cicatrici, le cicatrici di ferite aperte

(FRANCO NEMBRINI, Di padre in figlio. Conversazioni sul rischio di educare, Ares, Milano, 2011, p. 66)

3 • Cos’è un’«esperienza»?

Ora.

Senza fare moralismi…

E senza far venire a nessuno i sensi di colpa…

(ché come al solito ciò che scrivo qui sul blog vale INNANZITUTTO per me, a mo’ di promemoria)

…ma «fare un’esperienza» non ha nulla a che vedere con l’atteggiamento “usa e getta” a cui ci sprona il consumismo.

Un’«esperienza» è una cosa ben più seria:

L’esperienza è la profondità e la verità di una cosa a cui vai veramente fino in fondo.
È il rapporto con la realtà portato fino al suo giudizio estremo, la realtà assunta in tutte le sue dimensioni.
Mentre questo mondo fa credere che quante più ne provano, tanta più ricchezza ed esperienza ci sono.
Come se per scegliere la donna giusta bisognasse provarle tutte!
E comunque, se ci mettiamo in questa prospettiva, il giudizio rimane sempre sospeso, perché resta sempre il sospetto che la donna giusta possa essere quella che ti fa voltare la testa per strada domani.
Ed è sempre in dubbio perciò il rapporto con la realtà: non è mai fondato, mai certo.
Per conoscere il bene e il male non è necessario provare il male!

Se io devo insegnare a un bambino che il fuoco scotta, non è detto che gli debba mettere una decina di volte la mano sul fornello, perché poi si ustiona veramente; basta che lo aiuti a capire la cosa giusta da fare.

(FRANCO NEMBRINI, Di padre in figlio. Conversazioni sul rischio di educare, Ares, Milano, 2011, p. 66-67)

esperienze sbagliate

Luigi Giussani (1922-2005), sacerdote e insegnante italiano, scriveva queste righe, in uno dei suoi libri più folgoranti:

La persona è innanzitutto consapevolezza.
Perciò quello che caratterizza l’esperienza non è tanto il fare […]: è l’errore implicito nella solita frase «fare delle esperienze» ove «esperienza» diventa sinonimo di «provare».
Ciò che caratterizza l’esperienza è il capire una cosa, lo scoprirne il senso.
L’esperienza quindi implica intelligenza del senso delle cose.

(LUIGI GIUSSANI, Il rischio educativo, BUR Rizzoli, Milano 2016, versione Kindle, 84-85%)

Il contesto consumistico in cui viviamo anestetizza le coscienze, alimentando una mentalità che si basa sulla superficialità.

Il mondo contemporaneo “possiede” tante nozioni… ma non “conosce” più (quasi) nulla.

La cultura moderna è un oceano di “conoscenza” di un centimetro di profondità.

Nembrini, un paio di anni fa, disse queste parole lapidarie:

[…] il viaggio va fatto in profondità, non facendo il “surfista” della vita, sempre alla superficie delle cose, sempre alla ricerca di una novità.
La novità è in te.
La novità è dentro il particolare che vivi.
Cioè devi andare nella profondità di un punto, se vuoi vedere la Verità.
Non devi cercare girando come una trottola in lungo e in largo
.
Stai su quelle circostanze che Dio ti dà, perché quelle sono fattore inevitabile della tua vocazione.
Passa da lì l’incontro tra te e ciò a cui sei chiamato.

(FRANCO NEMBRINI, Nel mezzo del cammin, puntata 12 – Inferno XXVI (Ulisse))

4 • Che male c’è se…?

Veniamo dunque alla frase fatidica che ho scritto nel titolo della paginetta.

«Che male c’è?» è la domanda utilizzata da molte persone come criterio di discernimento prima di fare qualcosa.

  • «Che dici, me lo faccio un tatuaggio?»
  • «Massì, dai, che male c’è?»

  • «Secondo te pare brutto se flirto con quella ragazza su Instagram?»
  • «Perché me lo chiedi?»
  • «Non so… ho paura che poi lo scopre la mia morosa e ci rimane male…»
  • «Maddai, che male c’è? Se la tua ragazza è gelosa, è un problema suo!»
che male c e

Recupero di nuovo le parole di Nembrini:

Guai ai genitori che ragionassero con la domanda: «Che male c’è?»: sono già sconfitti, son già persi.
Se tu, da quando sono nati, di fronte alle scelte che fai con i figli hai come criterio la domanda «Che male c’è?», hai già perso: vincerà l’ambiente, ti sostituirà l’ambiente, perché tu sei fermo.
La domanda dell’educatore non è mai: «Che male c’è?», ma «Che bene c’è?».
Che cosa posso proporre in questo momento a mio figlio? Che cosa guarda mio figlio? A che cosa si sta attaccando mio figlio, che proposta di bene faccio a mio figlio?
«Che bene c’è?» è la grande domanda dell’educatore che sfida l’ambiente in cui suo figlio sta crescendo.
Chiedendosi che male c’è ha già perso, l’ha già consegnato all’ambiente nel senso deleterio del termine […].

(FRANCO NEMBRINI, Di padre in figlio. Conversazioni sul rischio di educare, Ares, Milano, 2011, p. 85)

…e ancora, nel suo commento al canto XXIII del Purgatorio di Dante, Nembrini scriveva parole simili:

Fare certi discorsi, comportarsi in un determinato modo, guardare certe cose piuttosto che altre non è senza conseguenze: genera una mentalità.
Anche qui, vorrei proporre un esempio tratto dalla mia esperienza.
Una sera vado a cena da un gruppo di giovani che per esigenze di lavoro abitano nella stessa casa; e lì, in bella vista, c’è un calendario con donne prosperose che vanno «mostrando con le poppe il petto», per usare l’espressione che adopera Dante proprio in questo canto (v. 102).
Io esprimo le mie perplessità, ma loro sembrano tranquilli: “Che male c’è?” rispondono.
Io provo a spiegar loro, come al solito, che questa è una domanda sbagliata; la domanda giusta è sempre “che bene c’è?”.
“Se tenete in camera un calendario così, vuol dire che lo sguardo che avete sulle donne è quello. Come fate poi a guardare le vostre colleghe, le vostre fidanzate, con uno sguardo diverso, che non tende a ‘divorarle’, a ridurle a oggetto?”.

(FRANCO NEMBRINI, dal suo commento al Purgatorio di Dante Alighieri, Canto XXIII, Mondadori, Milano 2020, pag. 523)

5 • La cultura della superficialità

Ripeto a scanso di equivoci: non è questione di moralismo.

O di “proibizionismo”.

Come scrivevo anche quando parlavamo del pudore, non è questione di “censurarsi”.

Si tratta piuttosto di prendere coscienza del fatto che spesso il nostro comportamento sembra “libero”

“genuino”“spensierato”

…ma in realtà è un comportamento indotto

  • …dal consumismo;
  • …dal marketing;
  • …dalla pubblicità;
influencer condizionamenti

L’anno scorso, in un’omelia, papa Francesco diceva queste parole:

La mondanità è una cultura; è una cultura dell’effimero, una cultura dell’apparire, del maquillage, una cultura “dell’oggi sì domani no, domani sì e oggi no”.
Ha dei valori superficiali
.
Una cultura che non conosce fedeltà, perché cambia secondo le circostanze, negozia tutto.
Questa è la cultura mondana, la cultura della mondanità.
E Gesù insiste a difenderci da questo e prega perché il Padre ci difenda da questa cultura della mondanità.
È una cultura dell’usa e getta, secondo quello che convenga.
È una cultura senza fedeltà, non ha delle radici.
Ma è un modo di vivere, un modo di vivere anche di tanti che si dicono cristiani.
Sono cristiani ma sono mondani.

(FRANCESCO, dall’omelia a Santa Marta del 16 maggio 2020)

Conclusione

Dato che in questa paginetta ho citato solo persone cristiane, passo e chiudo con un pensiero di Pier Paolo Pasolini (1922-1975), poeta, sceneggiatore, attore, regista, scrittore e drammaturgo italiano.

Che era fieramente laicista.

Ed anticlericale.

Ecco cosa disse Pasolini nel 1974 alla festa dell’«Unità» (che all’epoca era il giornale del Partito Comunista Italiano):

Ecco l’angoscia di un uomo della mia generazione, che ha visto la guerra, i nazisti, le SS, che ne ha subito un trauma mai totalmente vinto.
Quando vedo intorno a me i giovani che stanno perdendo gli antichi valori popolari e assorbono i nuovi modelli imposti dal capitalismo, rischiando così una forma di disumanità, una forma di atroce afasia, una brutale assenza di capacità critiche, una faziosa passività, ricordo che queste erano appunto le forme tipiche delle SS: e vedo così stendersi sulle nostre città l’ombra orrenda della croce uncinata.
Una visione apocalittica, certamente, la mia.
Ma se accanto ad essa e all’angoscia che la produce, non vi fosse in me anche un elemento di ottimismo, il pensiero cioè che esiste la possibilità di lottare contro tutto questo, semplicemente non sarei qui, tra voi, a parlare.

(PIER PAOLO PASOLINI, Il genocidio, intervento orale alla festa dell’«Unità» di Milano, 27 settembre 1974, in Scritti corsari, Garzanti, Milano 2011, versione Kindle, 88%)

sale

(Inverno 2021-2022)

Fonti/approfondimenti

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